Non si risparmia certo nel regalarsi al suo pubblico, Xavier Dolan, enfant prodige del cinema, nonchè star del nostro tempo (560 mila follower su Instagram e un video con Adele da due miliardi di visualizzazioni) che a soli 28 anni ha al suo attivo sette film e due premi importanti a Cannes.

“Guardo i film con il cuore, non con il dizionario cinematografico”


Xavier Dolan photo by Carole Lambert

Preferisce recitare o dirigere ?

“Prediligo fare l’attore perché, quando vesto i panni del regista, agisco sol- tanto attraverso interpreti che ammiro invece che con il mio corpo. Questo non è soddisfacente come quando sono io a ricoprire quel ruolo anche se ho imparato molto osservando i colleghi nelle loro molteplici trasformazioni. Recitare ora mi manca e, per questo, nei prossimi anni voglio farlo maggiormente”.

Com’è nata, invece, la sua passione per la regia?

“Inizialmente non avevo interesse a dirigere, l’ho fatto solo per poter scritturare me stesso come protagonista e avere un ruolo importante”.

Parliamo del suo esordio nel mondo del cinema…

” Il primo film, a cui sono particolar- mente legato, è arrivato a 21 anni e si intitola: Ho ucciso mia madre, inedito in Italia. Nasce dal mio desiderio di iniziare: non avevo frequentato scuole di cinema né girato cortometraggi, disponevo di un’educazione limitata e di un diploma di scuola superiore. Ero un attore disoccupato e pensai che nessuno meglio di me fosse adatto ad interpretare un film sulla mia vita. Mi sono imbarcato, allora, in questo viaggio che si è rivelato molto più complicato del previsto e nel quale ho investito tutti i miei risparmi. Intorno a me tutti erano sfiduciati, gli unici a crederci davvero sono stati gli attori”.

C’è un filo conduttore nelle sue opere?

“Tutti i miei film nascono da un problema che voglio risolvere per me o per i miei personaggi. Nel caso del mio primo lavoro la questione era: come posso cominciare la mia vita da artista? Nessuno mi darà una possibilità , quindi devo iniziare da solo”.

Quali sono stati i suoi riferimenti artistici?

“Non ho una grande cultura cinema- tografica e spesso vedo la delusione sul volto dei miei interlocutori mentre citano pellicole che non ho visto.

Mi sento sempre in colpa per questo. Ho cercato di colmare le mie lacune prima di dirigere “Ho ucciso mia madre” e ho visto talmente tante volte alcuni film come “In the mood for love” di Wong Karwai che il regista mi potrebbe accusare di plagio per quanto ho “rubato” da lui. Tutta colpa di un testo che considero la mia Bibbia e si intitola “Ruba come un artista” il cui messaggio è: inizia da fasullo e poi diventerai reale. A questo proposito ho fatto mio anche il pensiero di Francis Ford Coppola il quale incita gli esordienti in questo modo: ” Vogliamo che rubiate da noi, dalle nostre inquadrature finché verrà un giorno in cui qualcuno ruberà da voi”.

E il suo film del cuore? Quello che le ha fatto decidere di fare cinema?

“Ebbene sì: amo e venero Titanic! Credo raggiunga il massimo per quanto riguarda costumi, scenografia, effetti speciali. Un capolavoro dell’intrattenimento moderno. L’ho dovuto confessa- re anche di fronte a un gruppo formato da Paul Thomas Anderson, Bennett Miller, Sean Penn, Julian Schanbel, Ron Howard e Charlize Theron. Due anni fa, il mio agente, mi portò ad una cena che aveva definito informale mentre poi mi sono ritrovato con una tale compagnia. Ero tesissimo. Ci sedemmo e Miller iniziò a chiedere ai presenti quale fosse il loro film preferito. Tutti citarono opere impegnate, pellicole degli anni ‘30, registi africani; quando arrivò il mio turno pensai con apprensione: “Cosa diranno quando risponderò Titanic?!?”.

Ero consapevole del fatto che non fosse una scelta da intellettuale, ma la domanda non si riferiva al più grande film di tutti i tempi, ma al nostro preferito. Ho visto Titanic a otto anni e mi ha fatto volare, pensare in grande come se nulla potesse mai fermarmi. Da quel momento ho avuto voglia di fare cinema anche se, in realtà, sono uscito dalla sala con il desiderio di scrivere una lettera a Leonardo Di Caprio. Il successo di James Cameron non è sofisticato, non ha recondite chiavi di lettura, ma nel suo genere e per quello che vuole comunicare rappresenta la perfezione”.

Come sceglie i soggetti per i suoi film?

“Mi piacciono le storie che parlano di sognatori e combattenti che lottano per essere quello che vogliono. La società rema contro queste persone perché la loro autenticità evidenzia la falsità degli altri. I miei film si occupano di queste minoranze: uomini che desiderano diventare donne, uscire da un difficile rapporto madre-figlio o trovare il loro posto nel mondo. A volte riescono a raggiungere i loro obiettivi, altre no, ma non smetteranno mai di provarci”.

Ama il cinema italiano? C’è una pellicola che l’ha colpita favorevolmente?

“Tra i titoli più recenti, Call me by your name di Luca Guadagnino mi ha colpito al cuore. Questo film tenero e potente al tempo stesso, in grado di cambiare il modo in cui consideri l’arte e il sentimento, non mi ha lasciato più, ricordandomi che amore e sofferenza spesso sono indissolubili e esiste una bellezza nel dolore.