New York, il luogo dove Yayoi Kusama avrebbe voluto vivere, lontano da quel Giappone che le stava davvero troppo stretto. Una lettera a Georgia O’Keeffe, di cui aveva scoperto sui libri i paesaggi e i grandi fiori dipinti con visionaria meticolosità, funzionò da viatico verso la libertà. Era il 1957 quando l’artista statunitense le rispose, incoraggiandola a compiere il grande passo.

Fu così che la giovane Yayoi trovò il sostegno morale per intraprendere quel viaggio da lei a lungo sognato negli anni di studi d’arte a Kyoto, ma inaccettabile agli occhi della facoltosa famiglia cui apparteneva, nota nel Sol Levante per la produzione e il commercio di sementi, piante e verdure.

Nel ’58 Kusama, quasi trentenne, si stabilì quindi a New York, la metropoli che si stava preparando a divenire la capitale dell’arte contemporanea. L’anno successivo tenne la sua prima personale presso la Brata Gallery, già trampolino di lancio per maestri come Franz Kline. Non poterono che suscitare curiosità i suoi cinque enormi dipinti Infinity Nets qui esposti, ricoperti di minuscoli segni chiari su fondo monocromo.

È probabile che fossero stati ispirati a Yayoi da ciò che aveva visto dall’aereo per gli USA, ovvero le acque del Pacifico increspate di onde che le evocarono quel senso d’infinito che avrebbe trasposto nelle sue opere attraverso la raffigurazione di net e polka dot, reticoli e pois, come se si trattasse di mappe cosmiche, costellate di astri e pianeti. “Quando ero in aereo vedevo dei motivi riflessi nell’oceano e li ricreai nella mia arte”, affermava.

) SELF-OBLITERATION, 1966-1974
PAINTING ON MANNEQUINS, TABLE,
CHAIRS, WIGS, BAGS, CUPS, PLASTIC
PLATES, PLANTS, FLOWERS AND FRUIT.
VARIABLE SIZES
M+ HONG KONG © YAYOI KUSAMA
SELF-OBLITERATION, 1966-1974 PAINTING ON MANNEQUINS, TABLE, CHAIRS, WIGS, BAGS, CUPS, PLASTIC PLATES, PLANTS, FLOWERS AND FRUIT. VARIABLE SIZES
M+ HONG KONG © YAYOI KUSAMA

Fra i primi acquirenti delle sue opere, ecco Donald Judd e Frank Stella che intuirono sia il potenziale artistico che la carica eversiva racchiusi in quella mente di giovane ribelle, proiettata verso il successo. Ma anche il critico John Donn apprezzò i suoi quadri, aiutandola a farsi conoscere nell’esclusivo entourage newyorkese dove per una donna era difficile ritagliarsi uno spazio a causa dello strapotere artistico maschile, e non solo.

Gli esordi furono infatti irti di difficoltà per lei che saltava spesso i pasti e il sonno, anche per 40-50 ore di fila, assecondando la sua irrefrenabile pulsione a coprire la tela di micro pennellate, circolari e dense di colore.

Yayoi già era conscia dei sintomi di quella malattia psichica – un disturbo dissociativo, con risvolti ossessivo-compulsivi – che l’avrebbe accompagnata fino alla vecchiaia. Aveva confidato che da ragazzina, entrata in una serra dell’azienda paterna, era stata vittima di uno stato allucinatorio, popolato di minacciose forme tentacolari: “C’era una luce accecante, ero abbacinata dai fiori… mi sembrava di sprofondare, come se quei fiori mi volessero annientare”.

Così i tasselli di un potente patrimonio visionario si ricomponevano con consapevolezza già nei primi anni ’60 nella mente dell’artista nipponica e le opere delle varie fasi della sua storia in qualche modo in esso si sarebbero riassunte e da esso alimentate. Si pensi all’installazione The Bloom at Midnight (2009),con le sue gigantesche corolle floreali multicolori ricoperte di pois e occhi, che invase gli spazi del PAC di Milano nel 2010.

Eccola dunque nel ’61 alla sua prima personale alla Stephen Radich Gallery di New York – di nuovo con una tela della serie Infinity Net  –, che avrebbe contribuito a darle ulteriore visibilità a livello internazionale grazie anche al ruolo di trend-setter d’avanguardia svolto dal gallerista.

Non va infatti dimenticato che Kusama, nonostante occupasse una posizione da outsider negli USA rispetto a espressionismo astratto, Pop art e Minimalismo – anche se a quest’ultimo era accomunata dalla “ripetizione sistemica” –, in Europa suscitava forte interesse. La critica non tardò ad accorgersi di lei. Significativo che Udo Kulterman nel ’60 la invitasse a esporre alla mostra Monochrome Malerei (“Pittura monocroma”), allestita a Leverkusen nella Germania Occidentale.

Gli artisti del vecchio Continente, in particolare quelli del gruppo tedesco Zero, e di quello olandese Nul, nonché Yves Klein, l’apprezzavano ed esposero con lei fino alla fine degli anni ’60.

In Italia avrebbe trovato da parte di Lucio Fontana, conosciuto alla Galleria del Naviglio di Milano, sostegno morale e aiuto economico in occasione della Biennale d’Arte di Venezia del 1966, quando espose l’installazione Narcissus Garden – con la quale indispettì le autorità tentando di vendere direttamente sul posto, una per una, come provocazione all’establishment dell’arte, le 1500 sfere specchianti che la componevano –, mentre nello spirito dissacrante di Piero Manzoni avrebbe riconosciuto forti affinità concettuali. Nel ’72 Kusama avrebbe scritto a Henk Peeters del gruppo Nul: “Pierre Manzoni, Yves Klein e io abbiamo avuto vita molto dura …”.

Ma si stavano delineando anche altri leitmotiv nella produzione dell’artista, per esempio quello dell’ “accumulazione”, un concetto che avrebbe applicato fin dal 1962, ora attraverso la quantità di disegni e ritagli di carta, suppellettili domestiche, scarti tessili accatastati spontaneamente nel suo studio  ora attraverso le opere che da tali proliferazioni oggettuali traevano materia per configurarsi compiutamente: da Untitled Chair (1963), dalle chiare implicazioni erotiche – il simbolo fallico rappresenta una delle sue più ricorrenti ossessioni,

fino ad Accumulation of Hands (1980), sofà e sedie rivestite da centinaia di guanti argentati. La dimensione surrealista che permeava tali sue creazioni non poteva che trarre nutrimento dall’opera onirica di Joseph Cornell che fu grande amico di Kusama, oltre che vicino di casa, fino alla sua scomparsa, a metà anni ’70.

PORTRAIT BY YAYOI KUSAMA COURTESY OTA FINE ARTS, VICTORIA MIRO AND DAVID ZWIRNER
© YAYOI KUSAMA PHOTO YUSUKE MIYAZAK

In ogni caso il focus dell’opera di Kusama non si poneva sull’opera in sé ma sulla sua gestazione, quindi sull’artista stessa, ­che era autrice e nel contempo tema figurativo, come testimoniano anche i suoi bizzarri ritratti, di cui il primo, precocissimo, risale addirittura al 1939.

Alla fine degli anni ’60 le performance a tema sociale e politico – contro la guerra nel Vietnam, le discriminazioni razziali e di genere, o gli intrighi di Wall Street – e gli scandalosi happening la videro protagonista della scena newyorkese. Uno fra i più spettacolari, per le nudità di corpi dipinti, ma anche dei più segnalati dalla stampa dell’epoca – per esempio, dalla rivista “Ace G. Man” –, fu Grand Orgy to Awaken the Dead at MoMa, nel 1969 a New York al Rockefeller Sculpture Garden, vicino al MoMa.

Risale al ’73 il ritorno definitivo in Giappone. Nel 1977 Yayoi si sarebbe poi fatta volontariamente ricoverare a Tokyo in un ospedale psichiatrico, pur continuando a lavorare nel suo studio. Dopo una parentesi letteraria negli anni ‘80, sarebbe ritornata all’arte visuale, riecheggiando nelle sue nuove opere la produzione di vent’anni prima, ma introducendo soprattutto dai ’90 anche temi innovativi come le pumpkin, le zucche, che nella loro iconicità rappresentavano il ritorno alla natura in chiave sia animista – i ricordi “vegetali” dell’infanzia non l’hanno mai abbandonata – che mistico-cosmica. Un biomorfismo che continuò a improntare la sua creatività, per esempio, anche attraverso le sinuose e tentacolari configurazioni di The moment of Regenation, un’installazione del 2004 sospesa tra impulso vitale e istinto di morte.

Queste opere e altre dell’artista nipponica sono presentate al Guggenheim di Bilbao (fino al prossimo 8 ottobre) nella mostra “Yayoi Kusama: 1945 to Now”: dipinti, sculture e installazioni anche molto recenti (My Eternal Soul, 2009-2021) che permettono di varcare la soglia, densa di inquietudini e mistero, del suo universo immaginario. Sei i grandi temi intorno ai quali si articola il percorso espositivo: Infinity, Accumulation, Radical Connectivity, Biocosmic Death e Force of Life.

In particolare, è possibile esplorare l’Infinity Mirrored Room – A Wish for Human Happiness Calling from Beyond the Universe, uno spazio che, tappezzato di specchi, offre saggi di quella percezione dell’infinito su cui Kusama da sempre si focalizza tra allucinazioni e afflati mistici. Prima che a Bilbao è apparsa solo in Giappone, al Yayoi Kusama’s Museum, a Shinjiuku, Tokyo.