“La tecnica: talmente devi conoscerla che la devi dimenticare”
Un uomo, il suo studio, là dove tutto avviene sotto la luce dei flash durante le riprese fotografiche. Ma non solo: anche il tempio dell’anima, il luogo della riflessione, dei rapporti professionali, delle storie che si intrecciano, delle amicizie coltivate nel tempo.
Molte cose si potrebbero raccontare a proposito del maestro dell’obiettivo Giovanni Gastel e di quegli spazi di via Tortona che dal 1984 abita quotidianamente, salvo le parentesi dei viaggi, le ore degli shooting in esterni, e qualche tempo dedicato alla famiglia e alle vacanze, queste ultime prevalentemente vissute a Filicudi, l’isola paradisiaca tanto amata, dove ha conosciuto e immortalato Ettore Sottsass nell’ultima estate della sua vita.
Libri, molti libri, a coprire intere pareti, da cui trarre spunti: l’arte, surrealista- Jean Cocteau, Man Ray, Magritte, Giorgio de Chirico o Edward Hopper.
Foto, tante foto, disseminate anche a terra, sotto uno strato di resina che tende a mostrare la patina del tempo, ma che non scalfisce per nulla il fascino di questo “allestimento” che nacque nel 1997 alla Triennale di Milano, quando in occasione della mostra “ Giovanni Gastel – La fotografia velata”, curata da Germano Celant, fu deciso di rivestire il pavimento del corridoio che portava alle sale espositive con le immagini scattate da Gastel in una quindicina di anni di lavoro: come a segnare, passo dopo passo, l’inarrestabile escalation dell’autore.
“Bisogna sempre vivere il tempo presente”
afferma Gastel. Suozio, Luchino Visconti, regista e uomo di cultura fra i più illustri del XX secolo, rappresenta per lui un monito perenne: “Quando morì avevo 20 anni, ma già mi era chiaro il significato della sua eredità. Lavorava molto di metodo, attraverso uno studio costante, senza perdere di vista la contemporaneità. Fu lui a insegnarmi che i risultati si ottengono solo con l’impegno maniacale”.
A quell’epoca, nella seconda metà degli anni Settanta, non era ancora ben definito ciò che Giovanni Gastel, di aristocratiche origini (è figlio di Ida Pace Visconti di Modrone e dell’imprenditore Giuseppe Gastel), e di vivaci inclinazioni letterario-teatrali, sarebbe diventato. Certamente la fotografia lo affascinava moltissimo per quel suo essere, come egli stesso oggi la definisce, “pantomina del mondo”.
“A 15 anni il primo libro di poesie, “Kasbah” per l’editore Cortina, a 17 la prima foto venduta. Contemporaneamente, l’esperienza teatrale con “Esperimento 1”, gruppo d’avanguardia la cui frequentazione comportò lunghe prove notturne, coronate il mattino seguente, come Gastel ricorda, dall’immancabile cappuccino al Bar Giamaica.
Dunque varie le realtà parallele vissute dal giovane artista, sulle quali ebbe comunque la meglio la fotografia. “Che cosa è in fondo un’immagine scattata se non una mise en scene?” si chiede lui, ristabilendo le liaison con il palcoscenico. Poi ancora: “Ma quale fotografia? Quella di reportage, in cui si ritrae ciò che avviene, o quella di moda, in cui si allude alla realtà per ricrearla teatralmente?”
In più di quarant’anni si può affermare con certezza che nessun tipo di fotografia sia rimasta esclusa dall’ampio spettro di generi che Gastel ha sondato con il suo obiettivo.
A partire da quei primi still-life scattati a metà anni settanta per conto di Christie’s, negli appartamenti di chi intendeva mettere all’incanto qualche oggetto prezioso, e dalle immagini di moda apparse sulle pagine delle riviste, Vogue per esempio, cui Gastel ebbe accesso nel 1980 attraverso l’intermediazione di un’agente molto speciale: Carla Ghiglieri.
Nel contempo, iniziava anche la collaborazione (dall’ ‘81, per la precisione, per tredici anni, intensissimi) con Donna, fondata da Flavio Lucchini e Gisella Borioli. “Che devo fare? E Lucchini mi ha detto: ‘Studia!’ Allora ho studiato la storia della moda, la storia del costume…”, Gastel ricorda. La prima esposizione personale, “Giovanni Gastel. Fashion in Still-Life”, avvenne invece nel 1984 grazie all’interessamento di Lanfranco Colombo, direttore della galleria Il Diaframma e promotore della foto d’autore quando in Italia non se ne parlava ancora: “un padre” per Gastel.
In mostra c’erano gli still-life, ludici, ironici, metamorfici (“dietro una cosa c’è sempre un’altra cosa”), che già guardavano a Irvin Penn, uno dei modelli del giovane autore (“vedevo già da ragazzo le sue immagini su Vogue, che mia madre leggeva”), ma anche, per rimanere in ambito milanese, ad Aldo Ballo.
La via era ormai tracciata. L’attività si sarebbe sempre più intensificata, e gli interlocutori moltiplicati: dalle riviste di moda fino alle maison stesse: da Christian Dior a Trussardi, da Krizia a Missoni, da Ferragamo a Fratelli Rossetti o Acqua di Parma. Fondamentali l’uso della polaroid (dai Settanta fino agli anni Duemila), i lavori di ricerca (emblematiche le figure alate ispirate a un quadro di Galileo Chini posseduto dallo zio), fino a giungere negli anni Novanta all’intensificazione della produzione di ritratti, pubblicati in libri (del ‘98 “Milano venticinque secoli di storia attraverso i suoi personaggi”) e magazine (le copertine di “Rolling Stones”).
Poi mostre, tante mostre, fra le quali quella del 2016 a Palazzo della Ragione a Milano, “Giovanni Gastel”, una vera storia per immagini, curata nuovamente da Celant. Intanto, in attesa dell’uscita del nuovo libro di poesie, come annunciato di recente a Milano in occasione dell’antologica “My ladies” curata da Nicola Davide.
Angerame e Valerio Tazzetti allo Spazioborgogno, chiediamo all’artista chi sia dunque oggi un professionista? “Caduto il discrimine della competenza tecnica, ora si deve giocare la propria diversità, guardare nella propria anima”, risponde Gastel. “Non è più la conoscenza tecnica che fa il professionista. Il passaggio dall’analogico al digitale ha segnato, a mio vedere, la nascita della Fotografia, il che significa assoluta libertà e possibilità espressive acuite.
Non si fanno più le foto che si realizzavano prima. Gli strumenti tecnici contengono sempre un’estetica, e con il cambio degli strumenti muta anche l’estetica. Oggi c’è più spazio per gli autori. I creativi devono lavorare su ciò che li differenzia dagli altri: la propria unicità”.