Anni difficilissimi quelli vissuti da Ralf Winkler (Penck) a Dresda dagli anni Quaranta ai Sessanta: da bambino, nell’immediato dopoguerra, giocando tra le macerie, e poi, in regime filosovietico, cercando di scivolare tra le maglie della DDR (Repubblica Democratica Tedesca), una realtà oppressiva, particolarmente intollerabile per chi, come lui, fosse insofferente a qualsiasi imposizione tirannica e limitazione espressiva.

Vide, poco più che ventenne, altri artisti – Baselitz, Poltke, Richter – andarsene dall’Est all’ Ovest quando si compì la costruzione del Muro nel ’61, ma lui, convinto comunista, preferì rimanere dov’era, con l’illusione di poter intervenire sulla realtà, cambiare lo stato delle cose.

Dresda stava divenendo il polo tecnologico della DDR e lui cercò di adeguarsi – studiò cibernetica -, ma, pur divenendo un giovane colto e dai vasti interessi in ambito sperimentale, non si trasformò in perfetto uomo di scienza, mentre i veri talenti, quelli che avrebbero segnato il passo nella ricerca, emigravano all’estero.

Si immerse nella musica divenendone profondo conoscitore, soprattutto quanto a jazz e rock, ed esecutore, esibendosi alla batteria e al clarinetto. Intanto, nel ’61, formulava i primi Weltbilder, sorta di graffiti in cui tracciava scarnificate figure umane munite di rudimentali armi belliche, sviluppando in chiave analitica una personalissima rete di simboli, anticipando alla grande l’opera di Jean-Michel Basquiat e Keith Haring. Poi elaborò la teoria Standart a proposito della quale scrisse: “In generale, ogni fenomeno visivo, una volta percepito nella sua totalità, è uno Standart”.

PENCK – THE BATTLEFIELD), 1989. ACRYLIC
ON CANVAS, 340 X 1022 CM © 2021,
PROLITTERIS, ZURICH

Un Mondo di Disegni

Poiché l’artista non poteva certo allinearsi alla pittura del Realismo Socialista, sostenuta dal regime e quanto mai vuota di valori, assunto nel ’68 lo pseudonimo di A.R. Penck, iniziò a indagare sull’evoluzione del segno con l’intento di rendere visibile il pensiero astratto.

Il regime avrebbe gradito che i pittori rappresentassero “individui sorridenti con mazzi di fiori”, ma lui voleva dar corpo ad altri sogni. Costretto dal regime alla semi clandestinità, cominciò a esporre all’estero sotto pseudonimo. Nei primi anni Settanta, dopo essersi confrontato con la scena artistica occidentale – Duchamp, Warhol, Beuys -, avrebbe dichiarato esaurita l’esperienza Standart.

PENCK – STANDART, 1969. DISPERSED
COLOURS ON CANVAS, 127,5 X 98,5 CM
© 2021, PROLITTERIS, ZURICH

Nel 1980 la svolta decisiva: l’estromissione dalla DDR e l’inizio di un nomadismo esistenziale e artistico che lo avrebbe condotto a gallerie di particolare importanza: a Colonia (da Michael Werner), Düsseldorf, Berlino, Londra. E poi in Irlanda, Italia (da Lucio Amelio e Enzo Cannaviello), Israele, USA (da Ileana Sonnabend), Svizzera.

Il suo linguaggio si faceva caotico, distribuito in modo incalzante su tele smisuratamente allargate, intensamente visionario, come se l’Occidente lo rendesse ebbro e al tempo stesso tragicamente conscio di quanto tutto fosse illusorio: sotto le luci sfavillanti intuiva incubi. Nell’ ‘81 già era a New York, e alla galleria Sonnabend presto entrò in contatto prima con Basquiat, poi con Haring; nell’ ‘84 espose alla Biennale di Venezia con Lothar Baumgarten, rappresentando al Padiglione Tedesco la Germania Occidentale.

La Scultura come indagine del sé

Ma ecco a fine anni Ottanta profilarsi in modo assertivo la scultura, già iniziata nei Sessanta con gli Standart-Modelle: legno, prima di tutto; poi bronzo, marmo, feltro i materiali via via impiegati da Penck, secondo un percorso che si configurava affine a un processo catartico.

Una foto dell’ ‘84, in cui l’artista è ritratto con un’ascia in mano, sospeso a mezz’aria nell’atto di assestare impetuosi colpi alla materia, rivela l’impeto delle energie fisiche e psichiche compresse all’interno del suo imponente corpo, maestoso come quello di un troll della mitologia nordica, selvaggio come la sua condizione esistenziale, perennemente tormentata, lo incitava a essere.

Una svolta fondamentale quella della scultura, come la retrospettiva “A.R. Penck” aperta a Mendrisio (fino al 13 febbraio 2022) oggi sottolinea, presentando ad accogliere i visitatori nel cortile del Museo d’Arte il bronzo degli anni Ottanta Ich Selbstbewusstsein (Io-Autocoscienza), una delle più rilevanti realizzazioni plastiche – quasi tre metri d’altezza – del maestro tedesco, che attraverso quest’opera idealmente si interrogò su cosa fosse un artista.

La struttura piramidale aperta, densa di figure e di effetti stranianti, si pone come un autoritratto articolato in chiave evolutivo-spirituale, con molteplici allusioni all’arte moderna: Dalì e Picasso,
in primis. L’opera dunque fa qui da incipit al percorso espositivo – curato da Simone Soldini, Ulf Jensen, Barbara Paltenga Malacrida – comprensivo, all’interno del Museo, di una quarantina di dipinti, venti sculture e una settantina di disegni e libri d’artista che illuminano le tappe più significative della produzione di Penck.

EREDITÀ DI UN VISIONARIO

Nel contempo, chiamato nell’ ‘88 a insegnare presso l’Accademia Statale di Düsseldorf, Penck inaugurava l’attività di docenza che gli avrebbe permesso di diventare un punto di riferimento per i giovani artisti in Europa.

Ed ecco, riassuntivo della sua visione soggettiva come della storia del percorso spirituale di tutta l’umanità, il grandioso dipinto “panoramico” realizzato nell’ ‘89, The Battlefiled (Il campo di battaglia), che si rifà al modello dei Weltbilder: più di tre metri d’altezza e dieci di lunghezza, con lettura da destra in alto a sinistra in basso.

Una sorta di compendio di storia universale? Sì, certo, densissimo di allegorie: dal big bang alla bolla nera di antimateria, fino alle presenze demoniache, secondo la sua personalissima “immagine del mondo”. D’altra parte, sul versante plastico, nei Novanta Penck riprese gli Standart-Modell – assemblage di cartone, ferro, rotoli di filo, carta adesiva, objet trouvé -, che erano stati da lui concepiti auspicando l’avvento di un’arte democratica.

Intanto, andava sviluppando le sculture in feltro, ovvero “macchine che gli permettono di navigare in un mondo che rifugge senza fine, senza cedere alle posture distruttive del pathos, senza rinunciare al piacere dei segni e dei pensieri”, scrive Eric Darragon a chiusura del suo saggio in catalogo della mostra di Mendrisio (Skira).

Nel 2003 giungeva a conclusione la parabola di Penck, con il conferimento del titolo di “professore emerito”, mentre nel 2017, anno della morte, alla Fondation Maeght di Saint-Paul de Vence, ecco l’ultima sua retrospettiva.