Possiamo parlare di arte musulmana femminile? Quanto l’identità sessuale influenza la produzione artistica e, in modo particolare, in un contesto Islamico?
Nella cultura Occidentale ci sono degli stereotipi che condizionano la comprensione dell’arte prodotta da donne di religione Islamica? Queste sono solo alcune delle domande alle quali ho cercato di dare una risposta sin da quando ho cominciato i miei studi relativi alla cultura Persiana e la mia carriera di esperto d’arte contemporanea.
Nell’approcciarsi a tali temi è importante prendere in considerazione i pensieri e i lavori di artisti che appartengono alla religione islamica. La loro esperienza artistica esplora un mondo contraddittorio, caratterizzato dalla sfida al fondamentalismo religioso ma, allo stesso tempo, rappresentato da un grande senso di orgoglio e di appartenenza.
Shirin Neshat e Ghada Amer, per esempio, concepiscono entrambe l’arte come uno strumento di denuncia sociale e di introspezione psicologica: attraverso l’uso delle immagini, le artiste riescono a raffigurare il loro mondo interiore, le loro sofferenze e difficoltà e il loro desiderio di ottenere un’identità globale che vada oltre le differenze sessuali, religiose e culturali. Parastou Forouhar, Sukran Moral e Shadi Ghadirian, usando un linguaggio che è a volte ambiguo, rappresentano le contraddizioni femminili in società lacerate fra modernità e tradizione.
Nella questione sulla femminilità Neshta introduce elementi relativi al canto e alla musica per espandere il dibattito sul corpo femminile inteso come mero oggetto. Artisti come Shirin Fakhim, Firouzeh Khosrovani e Majida Khattari affrontano il soggetto della prostituzione a volte usando un tono ironico e altre uno che si confronti direttamente con un certo tipo di maschilità, che implicitamente consente che la donna venga trattata come una mercanzia.
Shirin Neshat
Il lavoro di Shirin Neshat si batte per rappresentare le complesse forze sociali e religiose che costituiscono una parte integrante dell’identità delle donne musulmane e del loro ruolo nella società Islamica il cui carattere sovversivo è evidente sin dall’inizio della sua carriera con le opere Unveiled (svelato, senza velo) e The woman of Allah (La donna di Allah).
Sono questi dei ritratti in bianco e nero di donne soldato Islamiche, coperte da chador pesanti. A una prima occhiata essi rappresentano lo stereotipo di un regime medio orientale violento e maschile, mentre dall’altra simboleggiano le donne che reclamano un potere che è stato loro storicamente negato.
Ghada Amer
Ghada Amer esplora il conflitto esistente tra due identità separate:
una che è influenzata da un’educazione musulmana e l’altra dalla cultura occidentale. Ghada spoglia entrambe le identità dei loro codici sociali usando un linguaggio ironico e dissacrante per evidenziare numerose contraddizioni e pregiudizi provenienti dalle due diverse culture: il modello estremamente liberale dell’Occidente e quello tipico del fondamentalismo Islamico.
In Red Diagonales (2000) l’artista ispirata dalla action painting, crea immagini in cui le pennellate di acrilico in parte nascondono e in parte rivelano i contorni di donne nude ricamate sulla tela. Questo effetto di negazione può essere colto solo dopo un momento di riflessione L’uso di colori brillanti con la tecnica dello sfumato e l’uso del filo di cotone evoca una storia distinta di pittura, che tesse una trama di segni e di immagini intrecciati come un prezioso arabesco.
Parastou Forouhar
Parastou Forouhar, iraniana di origine ma residente in Germania, esplora il tema della violenza psicologica e della repressione politica dei regimi totalitari. Forouhar mescola un forte senso di attaccamento alle proprie radici Islamiche con la denuncia del regime, un regime costituito in nome dell’Islam che ha obbligato un’intera generazione di donne al silenzio.
Nella serie di fotografie Benham (2001) l’ambiguità dell’immagine gioca un ruolo fondamentale. Da lontano, chi guarda vede immediatamente una serie di segni che, dopo un’ulteriore contemplazione si metamorfizzano in una figura umana, avvolta in un chador. Mentre chi guarda si avvicina alla fotografia, diviene chiaro che la persona che veste il velo non è una donna bensì un uomo.
La testa dell’uomo è rasata, donando al suo viso una qualità indefinita che, a una prima occhiata, ricorda maggiormente dei caratteri femminili. In questa opera non solo viene condannata la condizione delle donne, ma anche il “consenso” sociale che permette ai regimi Islamici di reprimere la libertà di espressione delle donne.
Sukran Moral
Sukran Moral, artista turca che si è trasferita in Italia per sfuggire alle persecuzioni del 1989, documenta la condizione delle donne affrontando temi quali l’esclusione dalla società, la giustizia, la religione e la prostituzione.
La sua prima apparizione sulla scena artistica internazionale ha suscitato molta attenzione: nel 1994 ha creato Artista, una performance nella quale ha ricoperto il ruolo di Cristo. Ponendo se stessa sulla croce, l’artista ha rivendicato una sorta di artistica androginia, affrontando il mondo maschilista rappresentato delle istituzioni dell’Islam e del Cattolicesimo, con la loro eguale visione misogina della società.
Al primo posto del pensiero di Sukran Moral ci sono le questioni sull’emancipazione femminile e il confronto dei conflitti ideologici e della guerra.
Il suo criticismo alla misoginia viene espresso in Speculum (1997) nel quale l’artista usa un tavolo per visite ginecologiche in cui la vagina di una donna viene sostituita da un monitor. La storia, assieme anche alla storia dell’arte, ha sempre rappresentato le donne come un oggetto, da una parte venerate per la loro castità e dall’altra desiderate in quanto oggetto di piacere.
In Speculum il piacere maschile viene rappresentato da una visione che penetra la parte più intima di una donna, non solo fisicamente, ma anche spiritualmente. Donna che viene quindi spogliata della propria identità e ridotta a uno squallido spettacolo anatomico. I lavori di queste artiste non si rifanno a una monotona voce sull’identità sessuale, la razza o la religione.
Piuttosto che focalizzarsi sulla Hijaab è preferibile provare a comprendere il messaggio incorporato nell’arte di queste intense artiste, un messaggio che può facilmente rapportarsi alle nostre proprie vite, magari creando un flusso fresco di creatività ed esperienza.
Ricordo che, durante la mia prima visita in Iran, una delle mie principali aspettative relative al lavoro delle studentesse della Iranian Academy of Arts (Accademia Iraniana per le Arti) e delle artiste Iraniane che ho conosciuto, fosse strettamente connesso alla “questione sulla condizione delle donne Islamiche”, che pensavo fosse spesso e costantemente presente nei loro lavori artistici.
La realtà che ho scoperto , in realtà, era diversa. Il lavoro della maggior parte delle artiste di religione Islamica non è rivolto a un arte “basata sul genere sessuale” se così possiamo chiamarla. Ho persino notato una certa “intolleranza” nei confronti dell’aspettativa che il lavoro delle artiste Iraniane dovesse quasi unicamente trattare la “questione sulla condizione delle donne Islamiche”. Stanche di essere raffigurate con occhio occidentale con il cliché della donna calma e sottomessa, esse lottano per liberarsi da quest’etichetta che è stata loro affibbiata e da tutte le aspettative occidentali connesse all’arte femminile Islamica in generale.
La produzione artistica di queste donne artiste va oltre la visione dell’artista Islamica che parla esclusivamente di donne coperte da un velo, una visione caratterizzata da cliché etnocentrici. Queste meravigliose artiste prendono parte a una discussione globale che è utile per ognuno di noi, ci aiutano a riflettere sulle nostre proprie sfide: dove siamo, a che punto ci siamo fermati e quale sia la direzione che dobbiamo prendere per poter riprendere il cammino. E’ un viaggio che deve essere fatto e queste coraggiose icone artistiche del nostro tempo hanno semplicemente offerto il loro personale contributo.