Sono cresciuto tra gli odori forti degli acrilici e quelli, più stemperati, degli olii. Con quello si viveva e per quello, forse, i profumi riuscivano a inebriare un bambino catapultato nella Milano grigia e fredda degli anni ‘60. Eppure campar d’arte – oggi come allora – non era facile.
La differenza stava forse nel confronto: la nostra casa, nelle domeniche silenziose e lente, si riempiva di gente. Nonna Beatrice sfornava teglie di pasta al forno e ogni forchettata era una festa. Forse perché il male comune di quegli artisti era un piatto magro e la mente piena di sogni colorati.
Eppure, quei signori velati dal fumo basso di sigari, pipe e sigarette che si diffondeva nel salotto come in una sala da biliardo, erano fra i più importati esponenti della pittura d’ogni tempo. I loro nomi, oggi, figurano nei cataloghi più preziosi delle gallerie d’arte. Si chiamavano Birolli, Prampolini, Dorfles, Munari, Vedova, Carrà, Cagli, Afro, Guttuso.
Ricordo che, sparecchiata la tavola, loro restavano per ore a dissertare di linee e colori capaci di assumere concretezza solo nella loro anima ardita. Non li capivo. Così come non capivo l’astrattismo, le macchie di colore, i colpi di spatola per dare concretezza alla unidimensionalità di una tela.
Anzi, quei chiacchieroni attorno al ‘mio’ tavolo che si mangiavano la ‘mia’ pasta al forno mi davano anche un po’ fastidio. Poi, un giorno, mamma mi disse: «Fermati e osserva. Allora capirai.». Aveva ragione. Mio nonno, Vincenzo Frunzo, ha vissuto d’arte, e per l’arte, tutta la vita, costruendo una maturità unica perché ha attraversato un secolo, il ‘900, fucina d’ingegno e di coraggio.
Era coraggioso e provocatorio dipingere come gli avanguardisti capaci di precorrere allora un percorso distante almeno mezzo secolo. Ecco il confronto, la differenza: allora i pionieri si scambiavano esperienze e sensazioni e l’arte che ne usciva era frutto di un travaglio comune
e condiviso. Così le avanguardie pittoriche si distinguevano per tratti unanimi e riconoscibili. Capaci di segnare un’epoca.
Oggi l’artista si chiude all’interno della sfera del suo eventuale successo, bollando per plagio ciò che solo assomiglia alla sua invenzione. Legittimo, certo, ma lontano da impulsi costruttivi dovuti alla comune esperienza.
Forse perché oggi il motivo del contendere milionario è ben distante dalla pasta al forno di mia nonna Beatrice. Quando le bizzarrie del mercato dispensano fortune, allora tutto cambia. Non voglio affermare con questo che ieri fosse meglio di oggi: per arrotondare il magro bottino artistico, nonno fabbricava in compensato e dipingeva le silhouette delle macchine da cucire Singer che i taxi milanesi recavano sul tetto per réclame. E io ne andavo ugualmente fiero. Lui, e il suo concetto puro d’arte, forse meno.
I colori del Golfo della Spezia, culla del Futurismo, erano sempre presenti nei suoi tratti, vuoi come animatore del Gruppo dei Sette, che come esponente del MAC milanese. Quella “ricerca di accostamenti cromatici netti e di forme geometricamente definite” (G.Dorfles), unita alla capacità di Frunzo di collegare le figure “senza alcun addentellato con il mondo esterno” (G.Dorfles), con il suo “restare radicato ai motivi originali del suo bisogno di esprimersi con le forme e i colori: il mare, il porto…” (L.Carluccio) non tarda a riconoscergli meriti: nel 1950 e nel 1958, con ben otto opere, è presente alla Biennale di Venezia.
Nello stesso 1958 si trasferisce a Milano su suggerimento dell’amico Birolli. Dedicatosi esclusivamente alla pittura, Frunzo vince importanti premi internazionali e partecipa a mostre prestigiose in tutto il mondo. Nella città lombarda proseguirà la sua vasta produzione artistica, sperimentando sempre nuovi modelli pittorici, sino alla morte avvenuta a Roma nel
1999.
Ancora oggi mi meraviglio nel ripensa- re a quanto l’arte appagasse ogni suo desiderio e riuscisse a colmare la sua vita fatta di dolori. Nonno Vincenzo abitava in una casa di ringhiera, di quelle autentiche, quelle con il “cesso” sul ballatoio. Eppure guai a chi gli proponeva di spostarsi da lì: una luce per dipingere come quella dell’unica stanza non sarebbe mai riuscito a trovarla altrove.
Oggi mi soffermo spesso dinanzi alle sue opere per “capire” e nei lampi di luce degli Incendi alle Cinque Terre, nei Fondali marini e nei Paesaggi rivedo l’estasi di una creazione guidata dalla sola forza dell’amore. Comprendo allora quanto importante sia “lasciare traccia” di un passaggio perseguendo coraggiosamente la propria passione. Sempre e nonostante tutto.