Antropocene” un titolo ambizioso per una mostra. Allude all’era geologica di recente formulazione (il termine fu coniato nel 2000) che, pur facendo parte dell’Olocene (iniziato 12.000 anni fa), se ne distacca per le mutazioni verificatesi negli ultimi secoli a seguito di interventi operati dall’uomo sul globo terrestre.
C’è chi data il suo inizio al XVII secolo: migrazioni di massa e rivoluzione industriale, chi al XX: accresciuto sfruttamento delle risorse del sottosuolo, avvento del nucleare, inquinamento, tecnologiz- zazione. Un’apposita commissione di scienziati (AWG Anthropocene Working Group) ne studia dal 2009caratteristiche e portata, individuando le macroscopiche ripercussioni del moltiplicarsi di interventi artificiosi sul paesaggio terrestre e sulla vita dell’uomo. Quest’ultimo, artefice e vittima insieme, vive oggi le conseguenze del suo irresponsabile operato spesso in modo inconsapevole. Ma c’è chi avverte i mutamenti, di cui tutti siamo testimoni, in modo chiaro e agisce per stimolare a livello internazionale l’attenzione di organismi sociali come di singoli individui.
Le prove di tale impegno socioambientale, con risvolti artistici,sono appunto offerte dalla mostra
“Antropocene” allestita al MAST di Bologna
(fino al 05 gennaio 2020)
ovvero un’esplorazione multimediale frutto della collaborazione tra il fotografo canadese Edward Burtynsky e la coppia di registi, anch’essi canadesi, Jennifer Baichwal e Nicholas de Pencier. Da vari anni si dedicano infatti a un’opera di gigantesca esplorazione dei continenti per documentarne, tra scienza ed estetica, i profondi cambiamenti intervenuti negli ultimi secoli e, in particolare, negli ultimi decenni. Curatori di tale progetto espositivo, che ha debuttato in Canada a settembre 2018 in partnership con MAST, sono Urs Stahel (MAST, Bologna), Sophie Hackett (Art Gallery of Ontario, Toronto) e Andrea Kunard (National Gallery of Canada, Ottawa).

Quattro le spettacolari sezioni ospitate al MAST all’interno delle quali dialogano le fotografie e i murales ad alta risoluzione di Burtynsky con le videoinstallazioni HD e le proiezioni su parete realizzate dai due registi. Virtual reality (VR) e augmentedreality (AR) diventano nuovi strumenti di storytelling. Tra percorsi interattivi e lectures, a coronamento della mostra, è stata posta la proiezione del film “Anthropocene: The Human Epoch”, che, co-diretto dai tre artisti, rappresenta il terzo episodio di una trilogia. I primi due sono costituiti dai video-documentari “Manufactured Landscapes” (2006-2009) e “Watermark” (2013), dedicati rispettivamente al lavoro di ricerca di Burtynsky in Cina nei primi anni del Terzo Millenio e all’utilizzo indiscriminato dell’acqua sul pianeta, diretti entrambi da Jennifer Baichwal.

Oggi, come si può evincere dalla mostra al MAST, il lavoro dei tre artisti, messo in relazione con quello di maestri dell’obbiettivo che li precedettero quanto a documentazione del rapporto fra uomo e natura, e fra luoghi antropomorfizzati e ambiente incontaminato, risulta molto più consapevole e ricco di sfaccettature ambientali. Il focus è dunque anche sulla storia della fotografia di paesaggio: da William Mc Farlane Notman a Ansel Adams, da William Garnett a Robert Adams, da GeorgeHunter a Lewis Baltz, per arrivare fino a Burtynsky stesso, di cui sono presentate in mostra immagini di grandi dimensioni (da metri 2,4 x 7,3 a 3,7 x 7,3) e di forte impatto emozionale.
Esaminandone alcune, talvolta realizzate grazie a droni, troviamo le immagini della miniera di potassio di Berezniki, negli Urali: le talpe meccaniche scavano nelle profondità in quello che un tempo era un fondale marino, lasciando sulle pareti dei tunnel impronte che nella perfezione del disegno concentrico ricordano quelle di gigantesche ammoniti, ovvero i fossili di quegli stessi organismi marini che formarono la roccia in tempi lontanissimi.

Nascono così riflessioni sull’invasività dell’intervento operato dall’uomo che ha aperto nelle oscurità sotterranee gallerie fino al 10.000 chilometri di lunghezza, provocando ora rilieviora voragini, e destabilizzando case e strade limitrofe. Qualche altro esempio: nel golfo di Guinea il delta del fiume Niger rivela l’impatto della massiccia presenza di petrolio che, fuoriuscito dolosamente dagli oleodotti presenti nell’area, influisce sulla colorazione delle acque e dell’ambiente circostante con effetti terribilmente spettacolari; mentre in Kenya la discarica di Dandora si configura come un irreale paesaggio montuoso, scandito da canyon di rifiuti in plastica multicolore profondi anche cinque metri. Rivolgendo lo sguardo al nostro Paese, ecco le apparentemente inesauribili cave di Carrara dove il tempo pare cristallizzato: nessuna via d’uscita dal campo visivo di luoghi dove le scavatrici asportano blocchi di marmo da secoli trasformando le Apuane in uno scenario spettrale.
E ancora, la distruzione delle foreste tropicali del Borneo
a causa di un devastante incendio che nel 2015 causò, tra l’altro anche un folle incremento di emissioni di anidride carbonica ha mutato il paesaggio lasciando mano libera a coltivatori abusivi e al gigantesco business della produzione di olio di palma. Queste (e altre) immagini di Burtynsky, rese con stampa pigment inkjet, risultano assai eloquenti. Arte o niente più che eccellente impegno documentaristico? Certo realtà aumentata e tecnologie digitali, presenti nelle fotografie come nelle videoinstallazioni e nel film, aiutano a enfatizzare lo shock visivo e ad accendere l’inquietudine. L’artista intanto continua a esplorare i continenti, cogliendo nuove armonie, come se dalla distruzione nascesse un altro “ordine”, anche se solo estetico.