Quando inizi a collegare le parti, cominci dal presupposto che, per quanto vago, ci siano untutto – il rettangolo della tela – e delle parti ben definite. Ma tutto ciò viene rovinato dal fatto che forse potresti avere un tutto ben definito ma senza parti, o solo pochissime.
DONALD JUDD 1
Iniziare a parlare del lavoro di Fernando Garbellotto menzionando una delle riflessioni di Donald Judd può sembrare un pieno paradosso. Eppure tali parole segnano un punto critico del dibattito sull’arte come oggetto e come concentrato di “verità” estetica.
Judd infatti prosegue dicendo che “il grande problema sta nel fatto che tutto ciò che non è minimamente semplice, è in qualche modo costituito da parti. Il punto sta nell’essere capaci di lavorare e di fare cose diverse senza rompere l’unitarietà dell’opera”2: la forma il limite che sancisce lo spazio della tela è quindi per Judd la realtà in cui si manifesta il senso di un tutto finito.
Non presenteremo tutto il dibattito legato a tali affermazioni in questa sede, ma useremo queste parole per iniziare il nostro discorso, dato che per Fernando Garbellotto il senso che è nel fare arte richiama il concetto di unicità più che quello di unitarietà: l’opera infatti, così come la natura, è fatta di tanti elementi che si ripetono, proprio come in un frattale.
LA TELA INSTALLATA: SUPERFICIE, SPAZIO, TAGLIO E NODO
Per iniziare il nostro breve ragionamento sul lavoro dell’artista, e prima di scomodare definizioni matematiche e geometrie non euclidee, partiamo dalla considerazione che la tela, per Fernando Garbellotto, è un concentrato di forma, proprio come per Judd, solo che in questo caso il concetto di forma non viene inteso in rapporto alla superficie piana dell’opera, ma a tutte le sue possibili dimensioni.
Infatti, quello che per molti è stato un supporto e uno spazio su cui agire la pittura, è invece in questo caso uno strumento per tessere e dar corpo alla complessità della natura, della visione e della conoscenza: Garbellotto taglia infatti la tela in fettucce di egual misura e annoda ogni fascia costituendo dei quadrati che continua a ripetere. Il risultato è una serie di reti, per così dire, la cui struttura, proprio come quella dei frattali, sembra ripetersi più e più volte.
La superficie viene quindi totalmente smembrata per dar vita a una spazialità espansa, in cui il limite del telaio non impedisce lo sviluppo potenzialmente infinito della materia di cui è costituita l’opera. Solo apparentemente quindi siamo di fronte a interventi distruttivi: l’atto di annodare le fettucce tra loro infatti, non solo riscostruisce il corpo della tela, dell’opera e della pittura, ma con l’aggiunta della variabile del vuoto apre di fatto il lavoro a nuove possibilità.
Dal punto di vista della dimensione, si può dire poi che l’opera di Fernando Garbellotto a ogni sguardo approda a differenti risultati: in questo gioco di pieni e vuoti, di luci e ombre, di rapporto tra gli spazi, ogni tentativo di raccogliere una visione stabile non può sortire l’effetto auspicato. Rispetto alle esperienze dell’optical e del cinetismo però, qui non si tratta di effetti retinici che mettono semplicemente l’occhio in gioco: lo sguardo si muove infatti liberamente all’interno e all’esterno della struttura sperimentato percorsi sempre nuovi che vanno ben oltre i meccanismi della pura percezione.
Non siamo di fronte a una figura, ma a un sistema potenzialmente infinito di relazioni: quelle tra le fettucce e i nodi, tra le porzioni di colore e quelle di bianco, tra lo spazio della tela e quello al di fuori di essa, tra il pieno e il vuoto, tra il ritmo delle varie “unità”e gli attimi di buio, tra il tempo e il suo inevitabile intrecciarsi con lo spazio del lavoro. Questa è la materia con cui l’artista costruisce la sua indagine, ed è questa la materia su cui imposta un concetto di visione che abbraccia al medesimo tempo conoscenza, coerenza e variazione.
UNITÀ, UNICITÀ E RELAZIONE
Pensare l’opera come un insieme di relazioni significa spostare l’asse del discorso dall’unità di cui parlava Judd a quello dell’unicità: come abbiamo detto, Garbellotto compone il lavoro annodando porzioni di tela che si ripetono costantemente in maniera simile a quanto avviene nei frattali.
Diversamente dalle altre forme geometriche infatti, un frattale si ripete sempre nello stesso modo ma su scale diverse: quando è ingrandito non perde dettagli ma anzi si arricchisce di nuovi particolari, e il suo perimetro può quindi tendere all’infinito – mentre la sua area resta definita.
È un’immagine paradossale se pensata solo in termini astratti, ma la sua natura è ben rappresentata da oggetti reali che come i cristalli di ghiaccio, i rami di un abete o di una felce, o la struttura dei vasi sanguigni, ci dimostrano la possibilità di far coesistere in uno stesso elemento tali opposte qualità.
Siamo di fronte alla moltiplicazione infinita, a un modello che si espande, a un nucleo di senso che invade lo spazio, a una proliferazione di forma e di tempo, a relazioni continue tra gli elementi e gli spazi dell’opera: il risultato è per forza di cose unico. È coerente, ma rimane inafferrabile: ogni unità è un tutto, ma il tutto non è mai misurabile fino in fondo perché può espandersi da un momento all’altro.
REGOLARITÀ, EQUILIBRIO E SOMIGLIANZA
Riallacciando il ragionamento sui frattali, rispetto al concetto di uguaglianza, Fernando Garbellotto inserisce delle variabili specifiche. La regolarità dell’andamento dei quadrati infatti, è sempre messa in discussione che siano questi composti in strutture appese come delle reti a frazionare lo spazio della sala, o che si tratti di opere montate su telaio.
La tela che mostra il suo retro e una differente esposizione alla luce, oppure il colore – nero – che scuote la monocromia del bianco, o ancora le ombre che variano in continuazione, sono infatti ulteriori elementi che spostano il lavoro dell’artista verso un concetto diverso di regolarità.
Così, in un equilibrio di questo tipo, le relazioni tra le parti diventano il vero punto d’origine di ogni movimento e di ogni situazione: l’identità degli elementi non è uguaglianza ma somiglianza, mentre il concetto di “differenza” da valore oppositivo si trasforma in ricchezza di possibilità, di risultati, di visioni, di moduli e di dinamiche spaziali.
WE ARE LED TO BELIEVE A LIE WHEN WE SEE NOT THRO’ THE EYEI 3
Quando non guardiamo con gli occhi – diceva William Blake – siamo portati a credere nelle bugie: la vista e lo sguardo certificano la verità. Nelle tele dipinte e annodate di Garbellotto lo sguardo ha proprio questa funzione: serve per ritrovare la complessità che si nasconde dietro l’apparente semplicità delle cose, a restituire le tante sfaccettature del reale, a uscire da ogni forma di equilibrio, e infine a scorgere e conoscere quei legami interni agli elementi che ci consentono di leggere l’identità in chiave non più monolitica, ma molteplice – proprio come se potessimo “vedere il mondo in un granello di sabbia / e un paradiso in un fiore selvaggio”, come a tenere “nel palmo di una mano l’infinito/ E l’eternità in un’ora”4.
1 Libera traduzione dall’originale “when you start relating parts, in the first place, you’re assuming you have a vaguewhole – the rectangle of the canvas – and definite parts, which is all screwed up, because you should have a definite whole and maybe no parts, or very few”, Donald Judd e Bruce Glaser, a cura di Lucy R. Lippard, pubblicato come Questions to Stella and Judd, in Art News, LXV, n 5, Settembre 1966
2 Ivi
3 Alcuni di versi da BLAKE W., Auguries of Innocence, 1803 (pubblicato postumo nel 1863
4 BLAKE W., cit.