Roma, anni ’60: città e decennio straordinari, sia dal punto di vista economico che culturale, perché allora la capitale era in gran fermento – arte, cinema, teatro, letteratura -, animata da eccellenze “romane”, come il pictor optimus Giorgio De Chirico, il gallerista Plinio de Martiis e gli artisti della Scuola di Piazza del Popolo, o altre internazionali, come Balthus o Twombly, che lasciarono evidente traccia della loro presenza nella Città Eterna.

Chi altro, meglio di Domenico Gnoli – il nonno Domenico poeta, il padre Umberto, esimio storico dell’arte, e lo zio Tommaso, critico letterario -, educato fin da bambino all’ esplorazione degli orizzonti del sapere, poteva immediatamente porsi come erede di memorie ponderose e, nel contempo, protagonista di situazioni novecentesche che si sarebbero state sviluppate, in anni di studio ed esercizio, grazie ad altri intellettuali e artisti allora ancora in cerca di un’identità? Certamente nessun altro.

Domenico Gnoli fu dunque un’eccezione, ma la sua rapida e luminosa ascesa fu interrotta da una morte prematura, che a soli trentasette anni pose la parola fine alla sua escalation.  

VIRTUOSISMI SU CARTA

All’artista (Roma, 1933-New York, 1970) fu l’attività grafica a dare fama già a partire dalla metà anni ’50: prima come scenografo (“Il mercante di Venezia” di William Shakespeare nel 1953, a Zurigo, per la Compagnia Baseggio, come “As You Like It” nel 1955, a Londra, per l’Old Vic), e poi come disegnatore, illustratore, incisore.

Le sue chine per il teatro mostravano sì il nervosismo del segno di Dalì e l’influsso della maniera di Fabrizio Clerici o Eugène Berman, all’epoca entrambi autori d’opere pittoriche di suggestione onirica a Roma, ma anche i virtuosismi tratti dal manierismo e dal barocco architettonico. Trame visive di racconti, commedie e canovacci, intrisi di caleidoscopiche citazioni come di sottile ironia, si sviluppavano dunque nell’esuberante produzione concepita da Domenico Gnoli per le scene, mentre un’acuta sensibilità volta al contemporaneo improntava le illustrazioni prodotte per aggiornate riviste newyorkesi come Fortune, Glamour, Holiday, Show Magazine, Sport Illustrated o Playboy.

VIEW OF THE EXHIBITION “DOMENICO
GNOLI”, FONDAZIONE PRADA, MILAN.
PHOTO: ROBERTO MAROSSI. COURTESY:
FONDAZIONE PRADA. ON THE WALL,
LEFT TO RIGHT, PUBLISHING AND
WORKS ON PAPER: POSTER OF CHÉRI,
BY COLETTE, DIRECTED BY ANDRÉ
BARSAQ, ITALIAN COMPANY FOR
THEATRE, TEATRO ELISEO, ROME, 1951;
SCENOGRAFIA FANTASTICA 4, 1952;
SCENOGRAFIA FANTASTICA 8, 1952;
SAGITTARIO 2 (GRUPPO SAGITTARI),1952.
IN THE CABINET, LEFT TO RIGHT: IL
MAGAZZENO, 1950; CATALOGUE OF
EXHIBITION “ITALIAN ENGRAVINGS”,
SASSARI, 1951; INVITATION TO THE
EXHIBITION “DOMENICO GNOLI.
DRAWINGS”: LA CASSAPANCA GALLERY,
ROME, 1951; SCENA DI NOTTE, FIFTIES;
SKETCH FOR CHÉRI, 1951

Non a caso il pittore divideva la sua esistenza fra l’Italia e gli Stati Uniti, in particolare New York, dove ebbe casa, già a partire dal 1959, e sviluppò una fitta rete di rapporti sociali e professionali.

DALL’INCHIOSTRO ALL’ACRILICO: MAGIE DEL QUOTIDIANO

A partire dagli anni ’60, la svolta pittorica. Gnoli divenne infatti presto noto anche per i suoi dipinti intinti di inflessioni metafisiche e surrealiste, ma anche memori della tradizione italiana che da Masaccio e Piero della Francesca, passando per Piranesi, giungeva a Carrà, De Chirico e Morandi.

Le sue opere si ponevano come close up di arredi domestici – divani, poltrone, letti – come di corpi umani, abiti, accessori e oggetti quotidiani, materici quanto basta per avvertirne la fisicità – grazie a acrilico, sabbia e colla mescolati insieme sulla tela -, ma sempre in modo allusivo e sfuggente. “Guardi questa sedia vuota. Racchiude un segreto, e io intendo svelarlo”, Gnoli stesso scriveva.

Dalla tradizione classica alla Pop Art, già trionfante nella Grande Mela a fine anni ’50 e pervenuta in Italia nei primi anni ’60, catalizzando immediatamente l’attenzione degli ambienti artistici, il passo non fu certo breve. Dalla nuova corrente pittorica statunitense, configuratasi ufficialmente alla Biennale di Venezia del ’64, Gnoli prendeva le distanze, rivendicando la sua autonomia espressiva.

Sottolineando come il suo figurativismo, passato inosservato quando l’astrattismo era particolarmente in auge, fosse in realtà molto diverso rispetto a quello pop, l’anno dopo avrebbe scritto: “Ho sempre lavorato come adesso, ma non lo si vedeva, perché era il momento dell’astrazione. Solo ora grazie alla Pop Art, la mia pittura è diventata comprensibile.

Mi servo sempre di elementi dati e semplici, non voglio aggiungere o sottrarre nulla… io isolo e rappresento… dal momento che non intervengo mai attivamente contro l’oggetto, posso avvertire la magia della sua presenza”. D’altra parte, lo scrittore francese André Pieyre de Mandiargues, conosciuto a Parigi, rincarava la dose a proposito delle distanze fra l’artista italiano e gli statunitensi: “Lo stile pittorico di Gnoli, nel momento stesso in cui descrive le cose banali che compongono l’ambiente dell’uomo, le illumina, illustrandole le nobilita, mentre gli artisti pop le volgarizzano”.

LA MOSTRA

Oggi la mostra a lui dedicata da Fondazione Prada, “Domenico Gnoli”(in catalogo un saggio di Salvatore Settis), mette in luce il suo straordinario percorso artistico (1949-1969) presentando cento dipinti, ordinati per tematiche, e duecento tra disegni, schizzi e documenti: foto, lettere, scritti, con allestimento, firmato dallo Studio 2×4 di New York, sviluppato sui due piani del Podium, secondo un concept che rievoca, soprattutto al primo piano, le atmosfere museali del secolo scorso.

Germano Celant, che ne programmò nel 2020 l’esposizione, avvertendo l’attualità della pittura di Gnoli, sottolineava come il pittore esprimesse “una volontà egualitaria: la rivincita degli elementi insignificanti e squalificati della classifica dei valori: il basso e il secondario, l’accessorio e il trascurabile”.

Quegli stessi elementi, in apparenza trascurabili, assumevano l’aspetto ambiguo di una misteriosa apparizione fuori dal tempo e dallo spazio, in particolare, nell’abbacinata luce mediterranea di Maiorca, dove dal ’63 l’artista era solito trascorrere vari mesi l’anno.

Gnoli in “Appunti per un testo incompleto”, ribaltando ogni suo supposto realismo, nel ’68 avrebbe programmaticamente dichiarato: “… guarda qui disegno una casa. Bada bene non è la mia casa… Bene, vedi, ho iniziato a sinistra in un modo molto realistico… Appena comincio a muovermi verso destra, le linee non sono più così dritte… non sei più in grado di contare le foglie e neanche i mattoni… poi ti soffermi più a lungo e a questo punto le tue sensazioni vengono stimolate e cominciano a cambiare le cose e continuano ad agire fino a che non vedi più la casa, vedi solo quelle, voglio dire le sensazioni…”.