Siamo nel Dopoguerra occidentale. Disillusioni, speranze, rivendicazioni politiche, sentimenti indipendentisti e bisogno di rivalsa originano un caos calmo. È in questo clima che tra i giovani artisti si diffondono ideali contestatori nei confronti dell’Arte Astratta.

Se gli orrori delle stragi della prima metà del Novecento avevano spinto pittori, registi, fotografi e scultori ad esplorare i frutti esistenziali e i meccanismi sfuggenti dell’inconscio, il Dopoguerra visivo (e non solo) riflette, si oppone ed elabora immaginari di massa, come la società nascente.

Così, si fanno strada due correnti dissonanti ma non agli antipodi: i Nuveaux Realistes (derivante dal Cubismo picassiano) e la Pop Art (con antenato principale Marcel Duchamp).

Sono gli anni delle prime auto dichiarate controculture, le cui premesse vivono tanto negli eroi trasgressivi di Jean Genet e nei poeti della Beat Generation, quanto nelle figure picaresche e deculturate che popolano le opere di Samuel Beckett.

I graffiti, la caricatura, il fumetto, l’underground, il rock and roll, la musica pop contribuiscono a rendere popolare il modello di un’anti-cultura e la nascita di una cultura alternativa. L’abolizione delle frontiere culturali e disciplinari, la dimensione collettiva, la liberazione dagli obblighi morali e sociali danno vita a una nuova condizione di spirito.

F. Poli, Arte Contemporanea

E’ anche il periodo di sviluppo della società di consumo, che riconosce il trionfo della meccanizzazione, venera la quantità a discapito della qualità. La massa è immersa nello spettacolo, sovreccitata dai media e inebriata dalla pubblicità. Già Gustav Le Bon in un testo del 1985 (Psicologia delle folle) ci aveva messo in guardia sul potere politico delle immagini, un’arma, poi, ampiamente utilizzata dalle dittature novecentesche per ammansire il popolo e trasmettere un ritratto ideale della realtà.

Fin dai primi anni dell’exploit pubblicitario è palese la sua forza persuasiva, attrattiva, quasi ipnotica, a discapito di una pedagogia critica. In tale contesto i portavoce dei Nuovi Realismi e della Pop Art, da un lato denigrano una concezione dell’Arte elitista, dall’altro dimostrano il loro innesto nel qui ed ora sociale, con la difesa sfrenata del connubio arte-vita.

Il termine Nuveaux Realistes viene coniato nel 1960 dal critico d’arte francese Pierre Restany e dal pittore Yves Klein durante la prima mostra collettiva nella galleria Apollinaire di Milano, per designare un gruppo di artisti (Yves Klein , Arman, Martial Raysse, Pierre Restany, Daniel Spoerri, Jean Tinguely e gli ultralettisti, Francois Dufrêne, Raymond Hains, Jacques de la Villeglé) impegnati a indagare nuovi modi di percepire il reale.

Ma ad aderire al movimento e al relativo Manifesto sono anche artisti americani come John Chamberlain, Jasper Johns, Robert Rauschenberg, Jim Dine, Robert Watt e Bruce Conner, ripudianti nei confronti della supremazia acquisita dall’espressionismo astratto. La contestazione si rivolge al carattere elitario e al gusto per il sublime, che vengono soppiantati da una ricerca costante del Reale.

Così l’Eart Art di Spoerri presenta le rimanenze dei pasti sulle tavole, mentre una mostra del 1964 è intitolata American Supermarket. Il collage, l’assemblage e la performance sono le pratiche che permettono a questi artisti di porre al centro l’oggetto della quotidianità, spesso riportato nella sua fisicità su tela o assemblato ad altri per dare vita a installazioni simili a discariche o vecchi mercatini dell’usato.

Da qui l’interesse per la strada, i rotocalchi, le automobili, gli oggetti domestici, e persino i rifiuti organici. Si tratta di appropriazione diretta della realtà, equivalente, nei termini usati da Pierre Restany, a un “riciclo poetico della realtà urbana, industriale e pubblicitaria”.

Gli artisti dei Nuveaux Realistes furono anche gli inventori del décollage (l’opposto dei collage), in particolare attraverso l’uso di manifesti lacerati, una tecnica padroneggiata da François Dufrene, Jacques Villeglé, Mimmo Rotella e Raymond Hains.

Occorre far presente che se da un lato spicca il rifiuto per una concezione eroica dell’Arte, dall’altro non viene meno l’individualismo degli artisti, che rispecchiano il neocapitalismo circostante nell’implicito motto dai tratti liberisti (e apparentemente apolitici): “Se vuoi, puoi!”. Sulla stessa linea d’onda nasce anche la Pop Art, l’Arte Popolare per eccellenza. Sebbene i suoi portavoce più noti siano Andy Wahrol, Roy Linchestein ed Ed Rusha, tale corrente nasce negli anni Sessanta a Londra, da un gruppo di artisti e intellettuali animati dal critico d’arte Lawrence Alloway.

Eccesso e accesso sono le due parole chiave di questa nuova direzione creativa. Il gusto è quello kitsch della società di massa, rispetto alla quale gli artisti sono sono ricettori ed emulatori, mentre l’accessibilità è di tutti, perché è un’Arte Popolare. Laddove i Nuovi Realisti avevano rifiutato il pathos egocentrico e l’interiorità dell’Espressionismo Astratto, gli artisti Pop spingeranno questa posizione al limite, fino ad assumere un atteggiamento antisentimentale, quasi robotico, adottando una posizione di indifferenza rispetto al soggetto rappresentato.

Così come nei Ready-Made i dadaisti non sceglievano, ma erano scelti dall’oggetto, Warhol realizzerà serigrafie di prodotti pubblicitari, sacrificando l’estetica della creazione in nome dell’accessibilità creativa. In Brillo Boxes (1964) non è più possibile distinguere oggetti reali e opere d’arte, non vi sono più modelli visivi (stilistici, iconografici, contenutistici) sulla base dei quali poter discernere un’opera d’arte dall’oggetto originale. Gli artisti Pop si fanno rappresentanti ma non interpreti della società di massa e lo stesso gesto artistico si riduce a una dimensione industriale.

Così, Empire (1964) è un video di Warhol che ritrae per otto ore senza interruzioni o movimenti di camera l’Empire State Building. Infatti, un altro immaginario profondamente esplorato è quello delle fantasie utopiste di una società robotizzata. La macchina per dipingere, intesa tanto in senso metaforico quanto in senso proprio, sarà designata come l’antidoto alla decadenza e alla preminenza dell’artista sull’arte. Alimentato da queste premesse, Richard Hamilton realizza Man, Machine, Motion (1955), un progetto fotografico che espone tutte le macchine create dall’uomo per estendere i suoi mezzi di locomozione, conquistare il tempo e accorciare lo spazio.

Come ogni movimento rivoluzionario la Pop Art attira adesioni ma anche critiche, in particolare di carattere filosofico. Si può essere imparziali messaggeri della società o qualsiasi immagine rappresentata da un essere umano è filtrata? E inoltre, cosa comporta il cambio dell’oggetto pittorico da Marilyn Monroe alla sua immagine di massa?