Chi disferebbe il corpo dalla sua struttura ossea per mostrarne la carne cruda, mischiando ossa, budella, pelle e peluria in un unico bolo organico? Francis Bacon (1909, Dublino, 1992, Madrid) ci è riuscito senza essere né un macellaio, né un assassino o, forse, recitando entrambi i ruoli. Pur non ricorrendo all’ausilio di ordinari strumenti di tortura, ha usato il pennello come bisturi e la tela come sala operatoria dei suoi massacri formali.
Uomo d’eccessi, irriverente, ossessivo, il pittore irlandese trascorre gran parte della sua vita da boéhmien, lontano da quegli ambienti domestici frigidi e intolleranti, che nel 1925 lo avevano cacciato di casa al suo ennesimo e provocatorio travestimento da donna. Londra e Parigi sono le principali città in cui Francis Bacon si rifugia, dove tesse relazioni di lavoro e legami affettuosi, tra calici di vino e i fumi di quella nicotina che tanto lo faceva soffrire d’asma. Qui si dedica completamente alla costruzione di un nuovo linguaggio pittorico, tanto fresco quanto macabro, tra i cui soggetti prediletti spiccava il suo amante George Dyer.
Il corpo è il corpo / È solo / E non ha bisogno d’organi / Il corpo non è mai un organismo / Gli organismi sono i nemici del corpo
Così scriveva il drammaturgo francese Antonin Artaud (1896, Marsiglia,Ivry-sur-Seine, 1948) nei suoi appunti Douze Textes inédits (1948), inaugurando un approccio viscerale, catartico e bestiale della rappresentazione. Bacon spinse la sua pratica pittorica proprio in questa direzione, fino a ridurre il corpo a viande (in francese carne macellata), espressione più autentica e volgare dell’animalità, quello che In Logica della sensazione (1981) Gilles Delueze (1925, Parigi, 1995, Parigi) definisce divenire-animale.
Persino i suoi studi, compreso il più noto a 7 Reece Mew di Londra, fotografato da Perry Odgen (1961, Shrpsphire, Regno Unito), hanno poco di mellifluo. Radiografie di malformazioni facciali, foto di incidenti d’auto, immagini di bocche maciullate, frame cinematografici pregni di dolore. È in questo inferno che capita la prima volta il suo George, allora niente più che ladruncolo di scarsa esperienza, pensando probabilmente di essersi imbattuto nella tana di uno serial killer.
In modo romanzesco nel film Love is the Devil (1998, regia di John Maybury) Francis si sveglia per un sordo rumore proveniente dal suo studio e imbattendosi nel suo futuro amante lo invita a venire a letto con lui, in cambio di promesse dispendiose. In effetti, per l’intera durata della squilibrata relazione, George è mantenuto dal pittore; all’inizio come tuttofare, con la possibilità di presentarsi agli amici quale accompagnatore e modello, poi nei panni dell’amante, e infine come compagno disperato.
I due sono opposte metà della stessa mela marcia che sarà la loro relazione: George ingenuo, disponibile, appassionato di pugilato ma con il compagno mansueto come un agnellino; Bacon insaziabile, eccentrico, solerte nella sua pittura e devoto alle passioni dolorosamente carnali. Tra azzardi sessuali, abiti eleganti e alterazione da Champagne, nascono una serie di ritratti celebri che fortificano la fama del pittore irlandese.
È il caso di Triptych: three studies for portrait of George Dyer (on pink ground) (1964), Portrait of George Dyer talking (1966), Portrait of George Dyer on a bycicle (1966) e Two George Dyer studies with dog (1968). George è sempre sfigurato con pennellate dai colori necroscopici, tramite inquadrature surreali e un tratto nevrotico che sintetizza ogni spasmo, gesto e godimento della loro relazione.
Poi, come Maybury racconta in Love is the Devil, accade un cortocircuito: la semplicità di George della quale Bacon si innamora, col tempo prende la forma di una pedante linea retta, divenendo persino oggetto di scherno tra il pittore e i suoi amici londinesi. È come se dopo aver esplorato sessualmente e artisticamente ogni millimetro di carne di George, il pittore ne fosse dapprima assuefatto e poi nauseato, fino a preferirne la fotografia da ritrarre alla persona fisica. In un momento di autoanalisi ricostruito nel film, Francis riflette:
George sta diventando noioso, è una tragedia in attesa di rappresentazione. Mi ricorda il mio amico Peter. Come George era una punta troppo eccessiva, una specie di barzelletta ossessiva che nessuno trovava divertente. C’era una sorte di inevitabilità, sempre inseguito dalla sua ombra.
La reazione del compagno a tale distacco è, quanto meno per Francis, inaspettata. Tra nuvole di oppiacei, fiumi di alcool e montagne di ansiolitici, il sentiero di George sembra confondersi sempre più con una parata alla ricerca di attenzione, tappezzata da una serie di piccoli e grandi gesti disperati. Dalle innumerevoli minacce di suicidio fino al tentativo di incastrare Bacon con una dose di eroina lasciata nel suo studio.
In FrancisBacon in Your Blood il curatore e storico d’arte Michael Peppiat (2015) sostiene che il pittore fosse attratto da figure in grado di difendersi autonomamente e scrive: Ed è proprio quello che è successo con il povero George. Sebbene avesse una sorta di muscoli sporgenti e, se davvero spinto, potrebbe essere abbastanza decisivo in una rissa, dal punto di vista temperamento, non ha resistito.
Dispetti, scontri, diverbi e incomprensioni rendono sempre più complicata una relazione tesa come il filo di un equilibrista. Non stupisce, che qualche sera prima dell’inaugurazione della grande Francis Bacon Retrospective al Grand Palais di Parigi, George viene trovato morto per un sovradosaggio di ansiolitici e sostanze stupefacenti nel bagno dell’Hotel des Saint-Pères, dove la coppia alloggiava. Nulla potrebbe descrivere il pietoso sconforto che assalì Bacon nei giorni successivi al lutto, se non, forse, il suo monologo in una delle ultime scene di Love is the Devil:
Mi mancherebbe. Mi mancherebbero le sue ascelle sudate, i calzini. Mi mancherebbero i suoi peli appiccicati intorno al lavandino quando vado a radermi. Mi mancherebbe il rumore della sua chiave quando gira nella serratura. Mi piacerebbe solo un’altra notte rannicchiato sotto di lui, solo un’altra notte d’amore, di affetto sincero. E qualche altro giorno di tenerezza. Ma, in fondo, alla fine che rimane? Un mucchio di ossa e qualche dente.
Francis Bacon continuerà a dipingere ossessivamente il fantasma di George, lasciandoci capolavori come Triptych: in memory of George Dyer (1971) e Triptych: tryptich may-june (1973).