E allora ci si comincia a chiedere: dov’è l’uomo?
E’ una domanda fin dai primi anni ‘80, quegli anni così leggeri e spensierati prima dell’ultima caduta, per dirlo con Nanni Balestrini “i magnifici anni ‘80 incensati da tutti gli alberoni, gli anni di merda, insinuano i maldicenti, gli anni della restaurazione dell’opportunismo del cinismo con tanti soldi cocaina fotomodelle per chi ci sta eroina e muccioli per chi proprio non ci sta le tv spazzatura per rincoglionirci tutti quanti gli anni culturalmente più vuoti e squallidi del secolo in cui nugoli di intellettuali collaborazionisti ben lottizzati e benissimo pagati ci rifilavano le meraviglie dell’effimero e del postmoderno”.
Allora erano gli splendidi “Relitti sessuali” a segnare gli esordi di Sergio Ragalzi all’Attico di Fabio Sargentini, Roma 1984, e mi ricordo di quei giganteschi quadri, sagome piatte, bruciate, alle quali non restava più nulla se non una semplice identity maschile o femminile, principio base della riproduzione.
Ma a cosa potranno mai dar vita degli esseri cosi privati, cosi mostruosi? Che cosa potrà mai distinguere l’uomo creato dalla natura rispetto alle sue copie artificiali? Esiste ancora un’iconografia umana nell’evoluzione postbiologica? E tutto è cosi sorprendentemente positivo, oppure il prezzo che dovremo pagare sarà sempre il solito, la creazione di “freaks“, di mostri da baraccone a cui per l’orrore si nega persino uno sguardo compassionevole?
Nel rispondere, Sergio Ragalzi ci mette tutta la possibile disperazione, un grido muto e nero di una coerenza assoluta, senza precedenti, che pure non esclude un lucidissimo progetto critico nei confronti delle sempre più frequenti banalizzazioni del corpo, del postorganico, delle mutazioni, della paura, del dolore.
Una riflessione molto simile a quella che, oltre dieci anni dopo, hanno dato Dinos & Jake Chapman, i più forti interpreti contemporanei della mostruosità che può derivare dalla scienza, con tanto di escrescenze sessuali fuori posto, sangue misto a orrori della guerra e della pace.
Da quei relitti sessuali agli attuali lavori, che vagheggiano il futuro di Genetica 2093, Sergio Ragalzi ha operato in senso de evoluzionistico spogliando passo per passo le sue opere di qualsiasi elemento consolatorio: da uomini a insetti, poi larve, bozzoli, virus; grovigli, embrioni, sempre ricoperti da vernici antipiombo nere e totalmente acromatiche, una sorta di Manzoni al negativo sculture e pitture di grandi dimensioni dove il gesto, un gesto di matrice informale che non può non ricordare il Vedova più virulento e dichiarativo si insinua nel corpo fino a renderlo disperatamente vivo, nonostante.
Ma lo sapete voi che cos’è un corpo? E’ un residuo, un resto, non quasi più niente, ma finchè ce ne sarà almeno un poco l’uomo, l’artista, l’intellettuale dovrà essere in grado di difenderlo, di fermarlo, di non lasciarlo morire. In ogni mostra di Ragalzi risulta perciò evidente l’ultimo stadio della catena, l’ultimo passaggio che trova sì sintesi compiuta nell’opera finale, ma lascia sempre una porta aperta, ancora una volta nonostante: questi nuovi giganteschi embrioni neri in materiale plastico, persino leggeri nel loro tenue movimento, sono i figli negati di un’evoluzione mancata, aborti del futuro. Eppure respirano, sentinelle del passato.
Oggi mi sembra ancor più difficile parlare di evoluzione della specie (umana?) e lanciare qualsiasi ipotesi sulla nostra percezione del futuro. Probabilmente le icone di perpetua memoria di Hiroshima e Nagasaki, agosto 1945, resteranno ancora laggiù nella nostra memoria; eppure nelle tv che allietano le case del mondo scorrono veloci, tra uno spot di detersivi e uno dell’ultima auto di grido, le immagini e le voci di un’altra guerra, a noi geograficamente piuttosto vicina.
E non è tanto la guerra a spaventarci quanto la degenerazione che altri corpi simili a noi ci provocano. Emigrato, profugo, diverso, alieno: parole che invadono la nostra coscienza che non riusciamo e non vogliamo accettare, perchè la nostra coscienza ci impedisce di accettare povertà, miseria, morte.
Meglio rimuovere che schierarsi, ed attendere con pazienza: forse, grazie alla guerra, ci saranno meno corpi estranei a minacciare il nostro conquistato ed illusorio benessere. Forse la genetica del 2093 avrà altre implicazioni, altri quesiti da risolvere e saremo tutti felicemente simili, come in Gattaca. Per adesso, e ancora, dose quotidiana di morte mediale e telematica. Per adesso Ragalzi ci lascia lì un grande quadro dal titolo Origine dove l’embrione umano si va fondendo con quello di una scimmia da cui prese inizio all’inizio dei tempi. Stranieri a casa. Andare avanti o tornare indietro?