Ha detto Eugène Delacroix che «la prima virtù di un dipinto è essere una festa per gli occhi». Di sicuro le opere di Paul Jenkins possono vantare questa virtù. Sono una festa, un’armoniosa composizione poetica di colori, di preziosi e inconfondibili giochi cromatici.
Stimoli tanto differenti, rielaborati dalla sua forte personalità, si sono condensati in una cifra stilistica inconfondibile, che ha nel colore l’esclusivo protagonista. «La pittura di Paul Jenkins – hanno scritto Damiana Tentoni e Francesco Pagliari – concede grande importanza al flusso energetico e vitale del colore, quasi vi fosse una ricostruzione mentale in multipolare accento di una realtà che va sempre interpretata, fra la memoria e l’esperienza.
L’osservazione dei tracciati fluidi o raggrumati di materia, che il colore espande sulle tele e sulle carte, presuppone una considerazione dell’arte come una continua reminiscenza dell’atto con cui si compone l’opera.
L’artista stesso raccontava di un tempo compositivo che non presuppone conclusione immediata, le opere possono elaborarsi in parallelo ed essere riprese: la memoria evocativa tuttavia coincide con una visione della realtà che si deforma ed astrae nella colata della materia pittorica, fino a formare densità e lievi stati della superficie. Il tempo si racchiude nell’opera ed esplode poi nella visione».
Nato a Kansas City (Missouri) nel 1923, deceduto il 9 giugno 2012 a New York, Paul Jenkins studiò al Kansas City Art Institute e, dopo i due anni di servizio militare compiuti in marina durante la guerra, si formò presso l’Art Student League di New York.
Vicino a Pollock, di cui fu assiduo seguace e amico, a Rothko e agli altri protagonisti dell’espressionismo astratto americano, raggiunse la sua misura personale dopo il primo viaggio in Europa compiuto nel 1953. Del 1954 è la prima mostra a Parigi, allo Studio Facchetti. Da allora Jenkins non abbandonò più l’Europa, dividendo il lavoro tra gli studi di New York e di Saint Paul de Vence. «Affine a Soulages e a Tàpies, non meno che a Kline o a Rothko, Jenkins – secondo Bosquet è riuscito a stringere legami con le eredità europee più di qualsiasi altro artista americano».
Attratto dalla natura primordiale del colore e dal suo rifrangersi sulla tela bianca, l’artista accosta colate laviche di colori assoluti che distende sulla tela col gesto di un tempo naturale. La materia esce da un profondo che è allo stesso tempo della natura e dell’uomo senza la casualità dell’arte informale: il suo è un gesto controllato che estrae dalla geologia della memoria la geometria profonda di un universo calcolato e misurato.
«Ciò che io cerco – disse l’artista è la coesistenza degli opposti. Una smisurata energia che si sprigiona al raggiungimento del centro calmo della tempesta. Questo principio ha un significato per me».
Americano di nascita ma europeo d’adozione, si potrebbe dunque dire. Paul Jenkins assorbe la cultura e le tendenze del Vecchio Continente. Ma nemmeno l’Oriente è estraneo alla sua educazione, che si è notevolmente arricchita grazie al contatto con le civiltà indiana, cinese e giapponese.
Una miscela di culture, che si estrinseca in una pittura inconfondibile, che – si è detto – ha nel colore il vero protagonista. Il colore che – come osserva Bruno Corà – «si rende protagonista entro forme che lo offrono alla vista in modo regale, ha delle proprietà frutto di una elaborazione tanto consapevole quanto inconscia, magistralmente guidato verso il suo stato di splendore da una tecnica ricercata e acquisita negli anni lunghissimi di un esercizio diuturno e al contempo libero come un uccello nell’aria o una vena nella corrente di un fiume in piena».
Le sue opere sono presenti nei musei d’arte contemporanea e nelle collezioni pubbliche di tutto il mondo, dall’Europa agli Stati Uniti, al Giappone, all’Australia, Paul Jenkins ha esposto in collettive e personali in Europa dagli anni Cinquanta a oggi