Il viaggio al Nord: da Palermo a Roma, da Salisburgo a Milano, ovvero un percorso all’insegna della luce, quella luce siciliana così intensa, quasi sacrale, che, pur stemperandosi nei climi nordici, nulla ha perso della sua carica eversiva, anzi ha acquisito maggior incisività e ha disegnato l’intero percorso di Paolo Scirpa, facendosi essa stessa materia nello spazio, presenza tangibile.

Nel suo lungo iter, Scirpa (Siracusa, 1934) ha attraversato temperie artistiche difformi e molto ha avuto da condividere con persone e situazioni, ma sempre mantenendo una sua autonomia espressiva, non per questo avulsa dalla contemporaneità numerose anzi le sue presenze
in mostre internazionali – e sempre tracciando una via personalissima.

Paolo Scirpa, MULTISPATIAL CUBE C2, 2005 WOOD, CRIMSON NEON LIGHT, MIRRORS CM. 39 X 39 X 39 (BASE CM. 14)

Dopo gli studi d’arte a Palermo e Catania e all’Accademia di Belle Arti di Roma, il “soggiorno” a Salisburgo, alla cui Internationale Sommerakademie für Bildende Kunst trovò Oskar Kokoschka a “detenere” il primato della centralità didattica pittorica, fu senza dubbio un’esperienza determinante. “Certo, ero affascinato dalla sua personalità”, ricorda Scirpa, “ma rifiutavo il suo insegnamento. Insegnava solo se stesso.

L’ambiente era animato da vari e interessanti personalità italiane – fra cui Luciano Minguzzi, Giacomo Manzù, Emilio Vedova, e poi Pinuccio Sciola – allievo, quest’ultimo, come me -, ma per quanto mi riguarda, il contatto più fertile fu quello instaurato con John Friedlander, che insegnava incisione alla Künstlerhaus.

Paolo Scirpa PROJECT NO. 143, 1986 CASTELLO SFORZESCO, MILAN
PHOTOMONTAGE CM. 44 X 62

La litografia, non a caso, si rivelò fin da allora tecnica a me assai congeniale quanto la pittura”.
Poi, nel ‘68, ecco l’arrivo di Paolo Scirpa a Milano in un’epoca politicamente e socialmente difficile, ma estremamente vivace dal punto di vista artistico. Quale lo scenario a Milano a fine anni Sessanta?. “Ho visto la nascita dell’Arte Povera. Fui assistente di Luciano Fabro all’Accademia di Brera – dove peraltro divenni a mia volta docente -, ma senza lasciarmene influenzare”.

Le inclinazioni dell’ artista siciliano erano piuttosto vicine – ma solo in apparenza a quelle dei protagonisti delle ricerche ottico-cinetiche, già giunte a maturazione in quegli anni. In realtà fu l’influsso del Futurismo – ben presente, anche se in modo subliminale, nel tessuto culturale milanese -, nonché del Costruttivismo e delle avanguardie europee, a risultare determinante
per Scirpa, che precisa:

“Restava per me fondamentale l’insegnamento di Umberto Boccioni che aveva avvallato
nel 1912 l’uso di vari materiali, e in particolare, quello della luce elettrica nel ‘Manifesto Tecnico della Scultura Futurista’ ”

L’artista prosegue poi: “Negli anni Settanta, le neonate gallerie Arte Struktura e Vismara Arte furono veri poli di aggregazione culturale per me e per le ‘forze percettive’ milanesi e internazionali (gli artisti del GRAV, Horacio Garcia Rossi, Julio Le Parc, come anche Hugo Demarco).

Ci furono contatti con il milanese Gruppo T? “Sì, ce ne furono, ma marginali. Avevo rapporti con Gianni Colombo, ma loro erano interessati agli aspetti percettivi, mentre io nell’arte cerco da sempre una spiritualità che vada oltre il fatto meramente tecnico ed esplori l’idea dell’infinito, anche in senso religioso”.

MULTIDEGREE TOPOSCOPE NO. 158, 1987
BRERA PALACE, MILAN PHOTOMONTAGE
CM. 44 X 62

Chi, fra artisti e critici, si rivelò la figura più significativa?

“Fu Carlo Belloli, che, legato fin dal ‘72 ad Arte Struktura, si sarebbe interessato alle mie opere, e ne avrebbe curato in seguito le mostre, coniando il termine ‘Ludoscopio’, che ancor oggi applico”, ricorda Scirpa.

Dunque, ecco i Ludoscopi, opere perlopiù cubiche, aperte su un lato, foderate di specchi e illuminate da tubi al neon modellati in base alle tre forme del quadrato, del cerchio e del triangolo, che creavano spazi illusori, aprendo al mistero dell’infinito gli occhi dello spettatore, e rivelando la tensione etico-religiosa dell’artista.

“Ma si trattava anche di una sperimentazione con risvolti ludici, come sottolineò Bruno Munari con il quale partecipavo alle cene dopo-mostra della Galleria Sincron di Brescia, diretta dall’attivissimo Armando Nizzi”, precisa. Se già a Milano nel ’69, alla Galleria l’Agrifoglio, Scirpa aveva presentato l’idea in nuce, fu al San Fedele nel ‘72 che espose nella mostra “L’Oggetto posseduto”, un cubo fatto di scatole di 2,20 metri per lato, con specchi e lampadine nascoste,
che suggeriva il senso dell’illimitata proliferazione dei prodotti commerciali: “Megalopoli consumistica”, era il suo titolo. Di lì a poco nacquero i “Ludoscopi”.

Ecco, dunque, proliferare da metà anni Settanta i “Ludoscopi” di Paolo Scirpa, “veri iperspazi-luce”, dove “si pratica l’abolizione del limite tra il reale e l’illusorio”, scriveva nel ’76 il critico e storico dell’arte Corrado Maltese, per proseguire in modo analogo fino a oggi, come attestano le opere presenti ora nella mostra “Paolo Scirpa. Sconfinamento”, a cura di Sabino Maria Frassà,
aperta allo Spazio Gaggenau di Milano.

Se a fine anni Settanta Scirpa accantonò l’idea del contenitore chiuso, lasciando fluire liberamente la luce nello spazio, dagli Ottanta si riappropriò della “scatola”, del contenitore geometrico all’interno del quale il posizionamento dello specchio riflettente, su almeno cinque delle sue pareti interne, e del tubo al neon di sempre nuova valenza grafico-formale e cromatica (spesso quest’ultima diversificata nella stessa opera, e intermittente) – garantiva inattesi effetti di rifrazione e di iperpotenziamento ottico-percettivo.

Fino a intravvedere profondità senza fine al di là dell’opera. Grazie sì alla tecnologia, ma anche a progetti precisamente orchestrati. “Mi sono sempre sentito vicino all’architettura”, precisa Scirpa che da una trentina d’anni, parallelamente, sviluppa interventi virtuali sul territorio con tecniche di fotomontaggio, inserendo giganteschi “Ludoscopi” all’interno di paesaggi naturalistici o urbani, dentro monumenti o palazzi, come a voler scoperchiare abissi ed esplorare le profondità a essi sottesi: fisiche, storiche culturali, metafisiche, speculativo-
filosofiche, religiose.

Sia che si tratti di necropoli greco-romane, rovine di teatri antichi, rocce della costa ionica, o luoghi stratificati dal punto di vista architettonico: Milano, Roma, Parigi. Emblematico il “Progetto archetipo del Teatro Greco di Siracusa con luci al neon” (1988-2003), sintesi bidimensionale disegnata dal neon che cristallizza l’immagine del “Ludoscopio”, ma che anche si pone come archetipo del Teatro Greco della città natale, ben presente nel vissuto dell’artista siracusano: “Sì, è il luogo del mito e, nel contempo, il ‘teatro’ dei miei giochi di fanciullo”,