Gli artisti, di tutte le tendenze, di tutti gli stili, di tutte le ascendenze e discendenze, sono i protagonisti della nostra scenografia di spettacolo e di virtualità, apparentemente senza autore, fatta di filamenti e trasgressioni, quanto da conversioni e annunci, azioni, senza separazioni, senza nettezze, in un grande territorio contaminato, mai neutro, che risente delle tracce delle grandi scuole del Novecento, che sono ancora qui, con noi, con i capelli un po’ imbiancati e i profili scavati dal tempo mentre su tutti incombono i segni di un oggi, barbarico, vitalistico, che non si concede distrazioni, bombardando, di segni, suoni, colori, fatti di tradizione e di tecnologia, facendo esperienza della contemporaneità, che non è una diacronia, ma un fatto mentale, onirico, passionale, alienante o anche salvifico.

David Begbie è scultore del sublime, erede, nel suo grande contenitore indicibile ed ineffabile, delle misure della bellezza, della libertà espressionistica, dell’emozione, della gestualità, del nomadismo, della sperimentazione, della teatralità della scena, del segreto di un laboratorio sapienziale e facturale, del grande teatro del mondo e della sua immensa volta celeste, conturbante aura fantastica e cappa insostenibile. La sua scultura caratterizza, rizomaticamente ed atmosfericamente il nostro tempo.

Essa si configura come un grande contenitore, informe, elastico, pronto ad assumere la forma di tutto quello che contiene dentro, cambiando di continuo il suo modo di apparire, la sua transeunte morfologia, fatta di tutte le imperfezioni e le titubanze che vengono a scontrarsi, quando tutto è stasi e sembra movimento, quando tutto è movimento e sembra stasi. 

Quando tutto si svolge nel segno dell’imprevedibile, che cambia continuamente i linguaggi e il rapporto tra di loro, gli eventi concreti, tangibili, non sempre riescono ad avere una corrispondenza con quelli immaginari e con quelli verbali, perché hanno ritmi diversi (vedi i concetti utopistici, che non corrispondono a niente, che non sia oltre la fisica dei materiali o, specularmente, quelli sperimentali, che necessariamente sono privi di nomenclatura, in quanto, imprevedibili, originali).

Nel sublime di Begbie è contenuto tutto, anche la bellezza, come pura potenzialità, che si articola in molte stilistiche e tipologie, che hanno in comune la forza debordante della ricerca, come dato della disseminazione, come effetto collaterale della smisuratezza, che richiede, di volta in volta, la concretezza dell’attualità, altrimenti resta confinata nel nulla.

Nei momenti di accelerazione (che costituiscono la regola della modernità), tutto viene travolto, dalla continua mutazione, terminologica, iconica, formale, in una concezione sperimentale che non si può mai annullare, neanche nei momenti di ritorno all’ordine, di nuova linfa della tradizione e della concettualità, perché c’è una asistematicità, una fibrillazione, che è diventata psicologia della fantasia e dei luoghi comuni, contaminazione tra individualità e agglomerazione di stati di memoria, di vita vissuta e di desideri, proiettati in ogni manifestazione non utilitaristica dei sé.

Si determinano, così, tanti e tanti, percorsi personali, costruiti sul pontile della libertà e della ricerca, come fa Begbie nell’area di una centralità culturale, spirituale, che deve presiedere alla creazione della singolarità, dello spessore in cui ognuno misura se stesso, nell’invisibile dei segni, dei desideri, delle speranze, delle delusioni e del visibile, che vuole fuggire al nulla, apparire, essere.

La persistenza della memoria storica, individuale e collettiva, per quanto opinabile, selettiva e spesso contraddittoria, fa da strato alla sua scultura dell’immanenza, da  comune riferimento, che non è solo linguaggio tecnico, ma un modo di esprimersi, fatto di confluenze e di alchimie, di desideri e di paure, di sogni e di ossessioni, che ognuno si porta con sé, come bagaglio reale e virtuale, che mette a disposizione del nuovo e del diverso, combinandosi con le valenze disseminanti e affabulanti, della dimensione babelica del mondo.

“Ogni lavoro è un’entità che ha una presenza fisica molto più imponente di qualsiasi oggetto solido perché’ ha il potere di affermare la sua non-esistenza” Certo, continuano a permanere i punti nodali, di un essere al mondo, di un esserci, di un rappresentarsi, costituendo in segno positivo che valorizza il negativo, le analogie, ma non le ritiene essenziali, allo sviluppo delle nuove scale di valori, che non sono determinate a priori, ma sono il punto d’incontro, instabile, di tante isole, di passionalità, di tanti innamoramenti, di tante emozionalità e di tante culture.